Scritti
Dalle Stagioni dell'Arte
di Angelo D'Amato (artista)
A scandire l’inizio della stagione autunnale è l’Equinozio, momento astrologico particolare che si situa tra il 21 e il 23 settembre. Esso indica l’entrata del Sole in Bilancia, segna l’equilibrio e ci riporta al significato latino del termine: Æqua Nox, “notte uguale”, appunto. Secondo alcuni indica il tempo in cui la natura incomincia a “morire”: la luce e l’aria cambia-no facendoci accarezzare un’atmosfera davvero particolare. Al crepuscolo l’illuminazione si fa più morbida lasciando il posto all’introspezione, all’intimità e al raccoglimento. In effetti la nostra coscienza con l’Equinozio è chiamata ad un lavoro di riflessione che lascia spazio alla ricerca e che ci spinge alla trasformazione, al cambiamento; segna un momento di metamorfosi il cui valore alchemico si traduce in ciò che declina e muore rispetto a ciò che sorge e si afferma. Entro questi due poli l’Arte è chiamata a fare da cartina di tornasole, segno evidente di un equilibrio a volte apparentemente in bilico, a volte costante, violento o desueto che il contenuto di un’opera deve raggiungere per essere considerata tale.
Gli artisti invitati alla manifestazione sono stati dunque chiamati a confrontarsi con un tema quanto mai generico ma dagli effetti sorprendenti; ovvero sono stati invitati ad offrire la loro esperienza “cristallizzando” un momento altrimenti effimero (il repentino susseguirsi delle stagioni dell’uomo) e proponendo la loro idea di “essere al mondo”. Il filosofo Merleau-Ponty sosteneva che l’artista è ancorato al mondo, in cerca dell’origine delle cose poiché “... è colui che fissa e che rende accessibile ai più umani fra gli uomini lo spettacolo di cui fanno parte senza vederlo.” Con ciò la funzione dell’Arte, lungi dall’essere semplice illustrazione ad uso e consumo della società, parla alle persone sensibili attraverso il simbolo, il gesto, il colore, la materia, offrendoci la possibilità di superare i limiti imposti dalla natura umana per rivelarci, anche solo intuitivamente, spazi senza tempo e luoghi senza storia.
Già in altre occasioni ho preferito parlare di “formatività” piuttosto che di “forma”. Tutto ciò che ci conduce, artisticamente parlando, alla forma assoluta passa inevitabilmente attraverso un processo di formatività, di incessante costruzione e decostruzione della composizione. È inevitabile che tale lavoro di ricerca spesso appaia lungo e faticoso, ma la posta in gioco è decisamente alta: fare del proprio lavoro un punto di riferimento che, al pari di altre discipline del sapere umano, possa dare un contributo decisivo alla crescita dell’umanità intera.
Il Convento e il Decontemporaneo
di Antonio Marmo (storico)
Le milieu, il luogo/ambiente, con la doppia valenza geografica e sociale, costituisce uno degli stereotipi che dal Positivismo ottocentesco e le ideologie correlate declinano con vari determinismi la multiforme produttività delle facoltà umane: nato in quel luogo/ambiente; proviene da quel… ; si è formato in quel… Nel linguaggio corrente spesso si intende con ciò un’influenza talmente incisiva sulla formazione dell’individuo da arrivare a plasmarlo per intero. È, questa, una delle tesi, esposta in modi più o meno velati, che sorregge l’impalcatura mentale del pensiero contemporaneo.
Gli stereotipi, i topoi, sono utili a semplificare e schematizzare, a organizzare e a classificare per riordinare, ossia controllare e incanalare ma la loro utilizzazione può essere riportata ad una giusta misura ricordando le parole di Giovanni Pico della Mirandola e di Arnold Gehlen sulle indeterminate caratteri-stiche di adattabilità e malleabilità, versatilità e creatività, manualità e capacità di trasformare, precipue all’antropologia aperta dell’essere uomo. Tali facoltà si esprimono compiutamente nel fare artistico tramite i meccanismi rielaborativi della mente poietica capace di creare nuovi significati, nuovi mondi.
L’arte odierna purtroppo, come scrive Maurizio Barrès, si è ridotta ad essere decorativismo, pubblicità, realismo di maniera e vuota ripetizione, e, nel migliore dei casi, espressione talmente astrusa da perdere i caratteri di universalità e comprensibilità, anche e soprattutto emotiva, ed essere invece decodificata da critici.
Al contrario il Decontemporaneo pone la sua prima esposizione in un luogo che ne rappresenta in nuce la sua teoria e la scelta è l’ex Convento Francescano di Giffoni Valle Piana che rappresenta così un altrove spirituale fuoriuscito da ogni risacca secolarizzata. All’ingresso svetta un campanile romanico e, dopo l’atrio, si accede al chiostro, luogo per eccellenza della meditazione nel giardino (parádeisos) ossia del pensiero che fruttifica, circondato dalle arcate ogivali a rammentare la formazione di un gusto inedito nel passaggio tra Romanico e Gotico. Nelle sue sale sono presenti affreschi che si richiamano allo stile artisticamente aurorale di Giotto ad indicare non una forma o un’iconografia oppure uno stile ma semplicemente un sestante orientato verso un orizzonte.
L’esposizione nel ex Convento di S. Francesco di Giffoni Valle Piana, luogo sottratto alla morsa di Crono, vuole soprattutto essere di buon auspicio per un arte che sfugga dalle effimere e soffocanti maglie dell’“arte contemporanea” per tornare ad assere Arte Decontemporanea, perenne fonte di significati.